La Sessualità nel setting terapeutico
Rachele Cresci
psicologa, psicoterapeuta Istituto Psicoumanitas

La stanza della psicoterapia è un luogo dove regna l’intimità, un contenitore protetto dei nostri segreti più profondi, uno spazio in cui “svelarsi” e mostrare la propria vulnerabilità, la propria nudità. Nel setting terapeutico, il paziente metaforicamente si “spoglia”, si libera di tutte quegli strati che filtrano la sua identità, rendendolo spesso inautentico.
Come affermava Rollo May, “Compito dello psicoterapeuta è quello di assistere la persona nella ricerca del suo vero sé e poi di aiutarla a trovare il coraggio di essere quel sé”, senza maschere, senza inibizioni (1991). Affinchè ciò accada è necessario che si crei tra paziente e terapeuta una relazione di fiducia, calore, accoglienza che permetta alla persona di “concedersi”, di cedere con i suoi tempi.
Un incontro tra due persone oltre che tra due corpi, che lentamente cercano di entrare in contatto attraverso le modalità, i tempi, i copioni che generalmente caratterizzano i loro rapporti. Ed è proprio in questo incontro che può insinuarsi la seduzione o d’altro canto la compiacenza.
Cosa succede infatti se quell’intimità (terapeutica) si trasforma in amore, attrazione, sessualità?
Su questi argomenti, in molti si sono espressi, manifestando perplessità e reticenza nei confronti di quelli che, se ci pensiamo bene, sono movimenti ed investimenti emotivi che raccontano tanto della persona, delle sue mancanze, dei suoi desideri, dei suoi bisogni, dei suoi cliches.
Il terapeuta rappresenta di frequente l’incarnazione dell’oggetto d’amore mancato, desiderato, odiato e su di questo vengono pertanto proiettati sentimenti e vissuti che spesso non hanno niente a che fare con la persona in quanto tale ma piuttosto con ciò che, attraverso il transfert, ha impersonificato.
Di fronte a questo il terapeuta può accogliere e validare quelle emozioni, seppur scomode, confrontando il paziente con ciò che accade nel Qui ed Ora della terapia oppure può rimanere imbrigliato in quegli sguardi seduttivi, in quei décolleté accattivanti o in quelle calde lodi, capaci di accendere il suo narcisismo o risvegliare le sue energie sopite.
L’ articolo 28 del codice deontologico degli psicologi recita “Costituisce grave violazione deontologica effettuare interventi diagnostici, di sostegno psicologico o di psicoterapia rivolti a persone con le quali ha intrattenuto o intrattiene relazioni significative di natura personale, in particolare di natura affettivo-sentimentale e/o sessuale. Parimenti costituisce grave violazione deontologica instaurare le suddette relazioni nel corso del rapporto professionale” ma ugualmente può accadere che il terapeuta si innamori del paziente, proprio come rappresentato dal celebre film “A dangerous method” in cui si racconta la relazione tra il giovane medico Carl Gustav Jung e la sua paziente Sabina Spielrein.
Il terapeuta infatti, attratto da quell’adorazione, affamato di riconoscimenti o semplicemente alla ricerca di una compensazione delle sue mancanze affettive può aggrapparsi a quel transfert emotivo e scambiarlo per amore o infatuazione, perdendosi nelle sue “pericolose” carezze.
Irvin Yalom afferma: “Teniamo presente che i sentimenti che sorgono nella situazione terapeutica generalmente riguardano più il ruolo che la persona. Non bisogna confondere l’adorazione da transfert con un segno di irresistibile fascino o attrazione personale” (2014). La capacità d’amare implica la capacità di entrare in relazione intima con l’altro.
Ed è proprio per questo che spesso il paziente trova più facile innamorarsi nel caldo e protetto setting di terapia rispetto all’ambiente esterno. Il paziente non si innamora del terapeuta ma di quello che, in quel momento della sua vita, quest’ultimo gli sta offrendo: accoglienza, calore, empatia, sicurezza, protezione. Il paziente ha bisogno, soprattutto in una prima fase, di idealizzare il suo terapeuta, di infondere in lui quella fiducia che si è sentito mancare prima e quindi di dotarlo di poteri eccezionali in quanto questo lo fa sentire al sicuro.
“…chi riveste un ruolo di un certo potere, burocratico, spirituale e psicologico dovrebbe cercare di rendersi conto responsabilmente delle dinamiche legate all’instaurarsi di questa fattispecie di desideri…il terapeuta si può impossessare del passato della persona e girovagare a suo piacimento nella vita dell’altro.” (Lo Iacono, 2015).
Il paziente si affida spesso in maniera incondizionata al setting terapeutico che assume le forme di un rifugio all’interno del quale custodire i propri tradimenti, le proprie perversioni, le proprie trasgressioni, le proprie fantasie. Ma può accadere che il terapeuta viva e di fatto trasmetta una resistenza a tali racconti e che pertanto il paziente non si senta a suo agio a lasciar trapelare tali intimità, celando al terapeuta ma soprattutto a se stesso una parte di sè che rischia di rimanere intrappolata e divenire un tabù.
Otto Kernberg nel suo celebre libro “Amore e Aggressività” sottolinea l’importanza di indagare, in fase di assessment, il funzionamento sessuale del paziente (2013). Tralasciare quest’area e interrompere il suo svelarsi nel momento in cui questo accade, porta il paziente a vivere la sessualità come qualcosa di sbagliato e a privarsi della possibilità di lasciarla emergere e di sentirla e viverla nel corpo.
Come affermava Alexander Lowen, padre della Bionergetica: “Per provare davvero piacere dobbiamo lasciar andare, permettere che avvenga ciò che è, permettere al corpo di rispondere con libertà”(1984), in ogni ambito della nostra vita. Risulta pertanto importante passare al paziente questo messaggio anche rispetto alla sessualità che, in tutte le sue forme, va liberata. Ovviamente, senza correre il rischio di sfociare in quella che Umberto Galimberti chiama “pubblicizzazione del privato” o “omologazione dell’intimo” (2004) che rende il sesso, il segreto, il corpo alla mercè di tutti e il pudore un lontano ricordo. Resistenza e imbarazzo del terapeuta creano le medesime barriere nel paziente che preferirà occultare o mascherare questa parte di sé. Ciò appare particolarmente rilevante nel momento in cui si cela la propria omosessualità, scontrandosi spesso non solo con la chiusura e negazione del proprio entourage familiare ma anche con quella del proprio terapeuta. Tali condizioni vanno a minare i presupposti fondanti del processo terapeutico quali la mancanza di giudizio, l’empatia, l’accettazione incondizionata, la fiducia, compromettendo il percorso di autorealizzazione del paziente.
Come sostiene Carl Rogers infatti “La tendenza a giudicare gli altri è la più grande barriera alla comunicazione e alla comprensione” (1952) e quindi alla psicoterapia. Il paziente si aspetta di essere accolto e accettato per come è, in tutte le sue sfaccettature e “particolarità”, comprese quelle sessuali, e appare pertanto imprescindibile che il terapeuta sia aperto a validare e raccogliere ogni “diversità”, seppur in contrasto con il proprio mondo. Ed è proprio per questo che si raccomanda sempre ai clinici di monitorare il proprio controtransfert che può divenire foriero di resistenze o “cedimenti amorosi”.
La stanza della psicoterapia deve rimanere un luogo in cui prima di tutto viene ascoltato e rispettato il proprio e altrui corpo.

Galimberti, U. (2004). Le cose dell’amore. Milano: Feltrinelli Editore.
Kernberg, O. (2013). Amore e aggressività. Roma: Giovanni Fioriti Editore.
Lo Iacono, A. (2015). I percorsi della sessualità. L’incontro tra Amore, Eros e Psyke. Roma: Alpes.
Lowen, A.(1984). Il piacere. Un approccio creativo alla vita. Roma: Astrolabio Ubaldini.
May, R. (1991). L’arte del counseling. Roma: Astrolabio.
Rogers, C. (1952). Barriers and Gateway to communication. Harvard Business Review
Yalom, I. (2014). Il dono della terapia. Venezia: Neri Pozza.

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