L’importanza della narrazione per dare un senso alla nostra vita.

La storia della terapia psicologica si intreccia da un certo punto in poi con quella della narrazione. il racconto, il raccontare e il raccontarsi è uno degli elementi centrali della terapia. È al tempo stesso tecnica e processo, metodo e contenuto di quel momento a volte magico che è la presenza di due persone in una stanza.

Ognuna delle due persone è spaventata e incuriosita da ciò che potrà accadere e, diciamo spesso ai nostri allievi della scuola Psicoumanitas che questa spinta, questa curiosità è forse l’unica molla che può accendere la terapia e imprimere nella relazione fra terapeuta e paziente la possibilità trasformativa del cambiamento. della propria narrazione.

Muoversi fra trama e ordito delle proprie narrazioni significa provare a cambiare finale, a vedere sentieri alternativi.

J. L. Moreno, padre dello psicodramma, intuì che raccontare una storia equivaleva a poterne cambiare il finale, rivedere il significato, renderla storia di tutti. In un teatro della Vienna dei primi del secolo scorso, Moreno sfidò il pubblico con una poltrona vuota posta sul palcoscenico: invitò i presenti a sedersi e raccontare una storia possibile per l’umanità.

la sedia rimase vuota, nessuno ebbe il coraggio, la voglia, la capacità di raccontare ciò che avrebbe voluto per sè e per gli altri in quell’inizio secolo.

“…Quella sera ero rimasto solo, completamente privo di preparazione davanti a un pubblico di più di mille persone. Quando si alzò il sipario il palcoscenico era vuoto, eccezion fatta per una poltrona di velluto con una cornice d’oro e uno schienale alto, come un trono di un Re. Sopra la poltrona c’era una corona dorata. Il pubblico comprendeva, oltre a una maggioranza di persone in cerca di problemi e curiosità, alcuni rappresentanti di stati europei e stranieri, ed esponenti di organizzazioni religiose, politiche e culturali. Se oggi torno a pensare a quella sera resto divertito dalla mia stessa audacia. Era un tentativo di curare e purificare il pubblico da una malattia, una sindrome culturale patologica condivisa da tutti i partecipanti. La Vienna del dopoguerra ribolliva di rivolte. Non aveva un governo stabile, non un Imperatore, non un Re né un leader.[…] La mia compagnia erano gli spettatori; le persone del pubblico erano come mille inconsapevoli autori teatrali. E la commedia era la trama in cui essi erano portati dagli avvenimenti storici e in cui ognuno recitava una parte vera[…]. Se solo avessi potuto trasformare gli spettatori in attori, gli attori del loro stesso dramma collettivo, cioè dei drammatici conflitti sociali in cui essi erano coinvolti in quel momento, allora la mia audacia sarebbe stata riscattata e la sessione avrebbe potuto iniziare. Il tema naturale della trama era la ricerca di un nuovo ordine delle cose, mettere alla prova chiunque nel pubblico aspirasse al comando e forse trovare un Saggio. Ognuno secondo il suo ruolo, politici, ministri, scrittori, militari, medici e avvocati, tutti erano da me invitati a salire sul palcoscenico, a sedersi sul trono e ad agire come un re, senza preparazione e davanti a un pubblico impreparato. Il pubblico era la giuria. Ma dovette essere un compito molto difficile; nessuno lo superò. Quando la rappresentazione arrivò alla sua fine, non era stato trovato nessuno degno di essere un re e il mondo rimase senza il suo leader.”

Questa è una fotografia dell’atmosfera che ha caratterizzato la nascita dello psicodramma, quando Jacob Levy Moreno, l’1 Aprile 1921 a Vienna, mise in scena il primo spettacolo di teatro della spontaneità.

L’intento di quello spettacolo non era di intrattenere o divertire, ma di provocare il pubblico a un dibattito servendosi di un mezzo pubblico per eccellenza: il teatro.

Le aspettative di Moreno circa le potenzialità della sua iniziative erano molto elevate: egli sperava di poter “contaminare” la platea con i germi della spontaneità e creatività e trasformarla in un gruppo “narrante”, capace di tessere una trama di racconti in comune.

D’altra parte “pubblico” non significa soltanto “platea”, ma anche l’insieme di persone che formano una collettività. La funzione del teatro allora è anche quella di rendere pubblico, di rappresentare, di narrare un fatto privato che in questo modo diviene pubblico.

le persone hanno bisogno di raccontare e soprattutto di raccontarsi.

il loro teatro può essere la stanza di terapia, e noi terapeuti a fare da pubblico, spesso da regista, a volte da co-autore, da comprimari o da comparse. In una stanza di terapia possiamo ripercorrere gli elementi del racconto e della rappresentazione scenica.

Maria Rita Parsi, che abbiamo avuto il piacere di avere come didatta del nostro gruppo di lavoro, ci dice:

Saper fiabare1 equivale a saper vivere, a saper trasformare la propria vita in progetti da realizzare, in crescita, in confronti, in superamenti, in accettazione di ogni sconfitta come di ogni vittoria con senso di realtà e responsabilità, ma anche con quella lievità, con quella autoironia che ci consentono un diverso e creativo stile di vita.

Facendoci ispirare da un articolo su Ideas.TED.com2, notiamo come siamo tutti impegnati nell’ “atto di creazione” della “composizione della nostra vita”, siamo tutti narratori. Riorganizzando gli elementi della nostra vita in forma narrativa riusciamo a dare alla vita stessa coerenza, e quindi un senso globale.

La storia che ci narriamo non è mai completa; ciascuno di noi compie delle “scelte narrative”: le nostre storie si concentrano sugli eventi che riteniamo più salienti, siano essi positivi o negativi, e le nostre interpretazioni possono differire moltissimo da quelle degli altri.

Dan Mc Adams3 ha intervistato alcuni soggetti, chiedendo loro di dividere la propria vita in capitoli, raccontando punti di svolta e ricordi e riflettendo, alla fine, sul tema centrale della propria vita. Ha scoperto pattern interessanti, tra cui quello di “redenzione/salvezza” e quello di “contaminazione”. Nel primo caso, le persone interessate alla società e alle generazioni future, tendono a raccontare storie di redenzione, in cui si passa dal male al bene, cercando di trovare un senso nelle esperienze. Nel secondo caso, si ha un passaggio dal bene al male e le persone sono meno interessate alla società e alla “generatività”. Queste persone sembrano sperimentare maggiormente sentimenti di ansia e depressione, percependo minor coerenza all’interno delle proprie vite.

Molto probablimente sperimentare modalità di raccontare e raccontarsi, improntate alla cosiddetta “agentività4” rende le persone inclini a percepirsi competenti e capaci di cambiamento.

La psicoterapia può essere vista come un modo per aiutare il paziente a riscrivere la propria storia: il paziente può arrivare a trovare un senso generale, nascosto sotto le difficoltà che ha dovuto affrontare. Aiutare le persone a “riscrivere” i propri copioni in un senso positivo ma soprattutto da protagonista rende capaci di pensarsi competenti e capaci circa il cambiamento, in un senso che è vicino a quello che gli psicologi chiamano “locus interno”. Anche piccole modifiche nella narrazione della propria storia possono avere un enorme impatto sulla vita. Possono renderci resilienti, ottimisti, aumentare il nostro senso di speranza e farci sentire efficaci5.

In sintesi, ci sembra che ancora una volta possiamo sottolineare le grandi potenzialità che risiedono in ogni persona, aspetto apparentemente scontato, ma che probabilmente non lo è.

La narrazione e la possibilità di scrivere o riscrivere la propria storia fornisce alla persona innumerevoli potenzialità, permettendole di acquisire il controllo sulla propria vita, di avere la capacità di scegliere. Proprio come quando leggiamo un libro, in cui solo l’autore “tiene i fili” della trama e di ogni singolo personaggio, così avviene nella nostra vita: siamo noi a scegliere a quali eventi dare importanza e a quali no, quali valori perseguire, il senso generale a cui ambire. La psicoterapia, quindi, si pone come un luogo in cui la persona può prende consapevolezza di questo: è come se la persona avesse la possibilità, nel setting terapeutico e insieme al terapeuta, di “prendere la penna in mano” e modificare, ampliare, riscrivere parti più o meno dolorose, arrivando a trovare un senso e una coerenza generale. In una metafora, forse un po’ azzardata, mi viene da immaginare il paziente come l’autore del libro, la persona da cui dipendono tutte le scelte, e il terapeuta, come l’editore del libro stesso, che accompagna e sostiene l’autore nella scrittura della propria vita.

1 per ciò che M. R. Parsi intende con fiabazione, vedi La mente creativa, 2006
2 http://ideas.ted.com/the-two-kinds-of-stories-we-tell-about-ourselves/
3 http://www.psychology.northwestern.edu/people/faculty/core/profiles/dan-mcadams.html
4 termine che per noi psicologi potrebbe richiamare anche quello di empowerment
5 per questo, vedi anche Fred Luthans e le sue formulazioni dello Psy-cap (2010, 2011)
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